UN BEL TACER, NON FU MAI SCRITTO

Anche detto: mai schiantarsi contro il muro da soli!

Ah, il web! Una fonte pressoché inesauribile di informazioni, dati, curiosità, indicazioni. Una cosa utilissima sai nana? Non hai idea di quello che la rete possa offrirti, in termini di risorse.

Ti dico anche subito, però, che non è tutto oro quel che luccica (secondo proverbio in tre paragrafi, sto decisamente diventando grande): è necessario, fondamentale, imparare a selezionare quel che si trova e quel che si mette in rete, perché internet può essere un’arma a doppio taglio.

Ma non è di questo che voglio parlarti ora.

Pro e contro dell’uso di internet li apprenderai da sola tra qualche annetto. No, voglio fare con te una riflessione su quella grande fonte di studio sociologico che è Facebook.

Allora, diciamolo subito: la prima volta che ho sentito parlare di Facebook era il 2008, e credo di aver guardato la ragazza che mi chiedeva “Ma tu sei su Facebook?” con uno sguardo tra lo smarrito e lo schifato perché no, non ci stavo su Facebook e non capivo nemmeno il senso di averlo per guardare le foto della mia dirimpettaia.

Poi si sa: la cosa ha preso piede, ha assunto il carattere di una multinazionale (Mark, vedi tante volte ad avere fiducia nel genere umano gli errori che si fanno) e addirittura ho iniziato a lavorare con Facebook, gestendo piani editoriali e campagne pubblicitarie. Insomma, ora ci sono, e ci sono anche tanto caspita!

Sono su Facebook e ho una posizione privilegiata.

Privilegiata, perché la mia faccia, le mie parole, sono quelle di una privata cittadina che si esprime, in modo assolutamente non richiesto, sulla qualunque: bello questo film, oddio che commozione questo libro, questo politico anche no, aderisco alla tal campagna e via di seguito. Come professionista, do voce a delle realtà aziendali medio piccole, aiutandole a comunicare il loro know-how, il loro valore aggiunto, le loro peculiarità. E questo mi ha insegnato a distinguere molto bene COSA posso permettermi di dire nell’uno e nell’altro caso.

La posizione privilegiata che ti dicevo, dalla quale mi diverto ad osservare un po’ questa porzione surreale di mondo.

Sai qual è una categoria che mi sta dando tantissime soddisfazioni? I politici. Ma aspetta, non buttare gli occhi all’indietro; non parlo di quelli sulla ribalta nazionale, quelli hanno una struttura dietro che, nel bene o nel male, costruisce ogni singolo aspetto della comunicazione. Il politico locale, invece, la propria comunicazione se la cura da sé, con risultati che a volte sono davvero comici.

Sì, certo, criticare tanto per non va mai bene, e poi ognuno dovrebbe fare il suo di mestiere, non siamo tuttologi. Ma è proprio per questo che auspicherei un approccio più soft, perché, prima o poi, la frittata viene fuori.

Vado con un breve elenco, non in ordine di importanza, degli orrori social dei miei politici del cuore: hashtag senza criterio nei post di Facebook, e anche tanti; spaziature con emoji di dubbia utilità; uso del MAIUSCOLO ALLA COME VIENE, perché magari cercare come fare un grassetto o un sottolineato non è contemplato; uso promiscuo della pagina personale e, per chi ce l’ha, di quella ufficiale in nome di una libertà di espressione che, in quanto amministratore della cosa pubblica, deve sottostare ahitè! agli interessi della suddetta; uso con tecnica “specchio-riflesso!” di post, commenti, messaggeria privata e stories, e solo perché gnè gnè gnè non rende se lo scrivi e fare video con un buon audio è un bello sbatti; autoincensazione con chiosa a falsa modestia, con inevitabile intervento dei supporters a glorificare l’eroe/eroina di turno.

Io un paio di volte ci ho provato.

Ho provato a far notare alcune incoerenze, delle storture, ma ho ottenuto il solo risultato di finire in una lista di gente non gradita, soprattutto dai supporters (che in effetti the hater’s gonna hate, che deve fare, poraccio?); proprio l’altro giorno, all’ennesimo “io ho fatto…. io ho detto…” stavo quasi per rispondere con lo stesso tono. Errorone che per fortuna ho evitato, ma lo devo proprio alla stortura, in questo caso, di un’assessora. Nel leggere la sequenza di azioni svolte in prima persona di cui si beava, sono arrivata all’ultima della lista, in cui sostanzialmente si attribuiva una riparazione.

E lì il flash, il lampo.

Me la sono immaginata, cazzuola alla mano, che scoppolava cemento fresco per le riparazioni del bene pubblico, accovacciata nel mezzo della piazza con il pantalone-guaina di pelle dall’alto del suo stiletto. Ho riso, di gusto!

In effetti, quando l’esempio lo dà Melania Trump…

E allora niente, ho lasciato stare sai nana, perché faceva già ridere così. E quella risata scatenata dalla ridicola perseveranza nel voler marcare il proprio terreno anche quando non serve, mi ha fatto comprendere il concetto di “disinnescare un conflitto”.

Però adesso ho una irrefrenabile voglia di vedere un film di Lina Wertmüller…

IMPARARE LA PERSEVERANZA.

essere perseveranti

Ovvero, se levare gli scudi o alzare bandiera bianca.

Cito dal web:

perseveranza
/per·se·ve·ràn·za/sostantivo femminile

  1. Costanza di atteggiamento o di comportamento, spec. in quanto accompagnata o motivata da propositi virtuosi o sostenuta da una convinzione personale, oggettivamente più o meno valida o addirittura inaccettabile.

In sostanza, siamo perseveranti, se vuoi anche virtuosi, quando siamo costanti e manteniamo inalterato un proposito, un intento, un’idea. Certo, una bella cosa, quella di saper tenere fede ad un proposito, anche se espresso solo con noi stessi. Anzi, dicono che la perseveranza sia una virtù che vada insegnata fin da bambini, ed il prima possibile.

La definizione stessa del termine però ci spinge a riflettere su come, a volte, la nostra perseveranza sia sorretta da idee non sempre valide, addirittura inaccettabili.

Il classico dei classici. Dove? E come?

Fino a quando, allora, perseverare è tenere fede alle proprie idee e quando diventa ottusa cocciutaggine?

No, nana, non lo sto chiedendo a te, per quanto a cinque anni, dicono gli esperti, dovresti già essere avvezza a questa dote. Me lo chiedo io, ora, cercando di osservare, con giusto distacco, le volte in cui per comportarmi da grande ho cercato di essere perseverante.

Lo sono stata abbastanza, di fatto; questo piccolo esperimento letterario online lo dimostra. Poco costante, dati i tempi dilatati tra un post e l’altro, molto perseverante, visto che sfioro il quarto anno di vita del blog.

Lo stesso dicasi con le persone: ho mantenuto rapporti amicali con tanti individui che ho incrociato nel corso della mia esistenza, seppure per poco tempo, perché mi piace parlare e confrontarmi con gente altra da me. E nello studio, nel lavoro, sono riuscita a portare a termine molte delle cose che mi ero prefissata.

La stessa perseveranza l’ho messa in alcuni errori, che diabolicamente mi ostino a ripetere.

Tendo ad innamorarmi della gente, appassionatamente e perdutamente. Platonicamente anche, nel senso che mi innamoro dell’idea che mi faccio di una persona, perché magari la trovo interessante, con un vissuto intenso, particolarmente carismatica. E fatico a risvegliarmi da questo innamoramento, a non perseverare nella mia posizione, anche quando tutti, pure l’oggetto della mia costanza, fa di tutto per dissuadermi.

Non stai capendo niente, vero?


Photo by Niklas Hamann on Unsplash

Pure io vado in tilt in questi casi, e fatico a spiegarmi. Eppure ci ricasco sempre. E mi trovo, come ora, a riflette, sul perché io non sia in grado di leggere i messaggi tra le righe, e lasciar stare. Ho passato mesi a cercare di farmi ascoltare da una persona, farmi prendere sul serio da un punto di vista professionale, guadagnare ai suoi occhi la stessa credibilità che lei ha ai miei. Sono stata lì, ferma, pendente dalle sue labbra in attesa di un cenno di assenso.

Che è arrivato, alla fine.

Ma subito dietro una bella doccia fredda. Quel “si ma no” detto per ridere che si materializza. Bella botta.

Perché non mi sono fermata prima?

Non so risponderti sai. Mi facevo bastare quel “no” mai detto esplicitamente; mi facevo attratte dall’idea di una possibilità di collaborazione, e oso dire, di amicizia che avevo costruito nella mia testa. Poi il no è arrivato senza essere detto, ma è talmente tanto chiaro ormai, che perseverare sarebbe davvero un errore diabolico!

Ecco, vedi, sono questi i casi in cui continuo a chiedermi se mai diventerò grande, se mai imparerò la differenza tra tenere fede a se stessi e non vedere più il là del proprio naso.

NE’ CARNE, NE’ PESCE.

né carne né pesce

Dell’eterna “Sindrome da profilo B”

Sei mai caduta nella trappola allettante del “Test che ti svela quel tratto del tuo carattere che tu non conosci ma il cretino che ha scritto il test si“? No, certo, tu hai appena cinque anni e sai leggere parole di 4/5 lettere al massimo. Comunque, ti spiego io: nel variegato panorama delle riviste maschili e femminili (anche maschili sì, chi ti dice il contrario mente spudoratamente), proliferano innumerevoli test di personalità, con pretesa scientifica e, spesso, esiti quanto mai banali.

Sono in molti a lasciarsi tentare dai titoli accattivanti e a lanciarsi nella sfida.

Ovviamente ci cado periodicamente anche io, con un immancabile, eterno risultato: profilo B. Dove, bada bene, la maggioranza di risposte A sta a significare un estremo del presunto oggetto del test e le risposte C l’altro. Io mi posiziono sempre, e da sempre, nel mezzo. La giusta misura di tutte le cose, l’equilibrio perfetto di ogni emozione, la giustapposizione tra Yin e Yang.

Perché quando l’equilibrio riguarda te non sembra così affascinante? Photo – @jeremy_thomas

Ma è proprio vero che la virtù sta nel mezzo?

Io me lo chiedo spesso, almeno ogni volta che mi ritrovo a leggere l’immancabile profilo intermedio a cui corrispondo. Perché, insomma, a volte guardandomi intorno ho la sensazione che questo specifico aspetto dell’essere virtuosi sia una bella fregatura! Una fregatura, sì, perché non ti senti mai né carne né pesce, in un’eterna adolescenza che non ha il sapore delle cazzate che si fanno a 16 anni, ma della non appartenenza all’età adulta e nemmeno a quella dell’infanzia.

I profili A o C, i due estremi del test, vivranno di eccessi? Sono tipi super ordinati o tremendamente disordinati? Razionali e calcolatori anche quando si innamorano o vivono tutto di pancia? Ma, soprattutto, sono felici nel loro profilo ben definito? Sono soddisfatti?

Posso essere figa come la ragazza della copertina dei test? @cleo-vermji

Io non sempre ci riesco.

E mi torna in mente Ligabue che canta “chi s’accontenta gode così così”, e quindi no, non vorrei accontantarmi! Ma credimi nana, non è valso nemmeno barare ai test per sfuggire alla morigeratezza! Forse, ma dico forse, è anche per questo che fatico – proprio tanto! – a diventare grande.

POSSO SCENDERE DALLA GIOSTRA?

scendere dalla giostra

Ovvero, ogni bel gioco, prima o poi, annoia.

Hai presente, nanetta mia, quei simpatici giocattoli da scrivania per grandi? Quelli con una serie di palline metalliche messe in fila, una accanto all’altra, che vengono fatte oscillare? I pendoli di Newton li chiamano, e vengono usati per mostrare, ai grandi appunto, che hanno sempre bisogno di vedere, la teoria della conservazione della quantità di moto ed energia o, come erroneamente dicono, il moto perpetuo.

Lo so che tu non hai idea di cosa stia parlando, ma quelle palline infernali mi vengono sempre in mente quando, a fine serata, stanca e con la voglia di sprofondare nel divano, mi trovo ancora a correre dietro alle cose da fare in casa. E ad ogni passo sento il ticchettio, eterno, del loro continuo oscillare.

Me lo dicevano le altre donne, altre mamme lavoratrici, che la vita poi diventa come una giostra.

E io non le ho mai sottovalutate per carità; onestamente, credevo però si potesse prendere una pausa da tutto questo, o almeno rallentare. E invece no, non si può. E non si può per un motivo molto semplice: un cedimento, un rallentamento o uno stop temporaneo comporta spesso una serie di sfighe a pioggia che si protraggono nel tempo. Sì, posso sembrarti melodrammatica, ma ho lavorato per una compagnia teatrale non scordarlo. Si tratta comunque della verità nuda e cruda: per una sera che passo a grattarmi la pancia sul divano sconto un due/tre giorni di lavori accumulati.


Photo by rawpixel on Unsplash  

Ragionare con due giorni di anticipo, per essere sicura che qualsiasi contrattempo al lavoro non abbia ricadute sulla vita familiare.

Ma è davvero così? Davvero questo modo di fare non porta conseguenze per le persone intorno a me? Io li vedo i miei figli, li sento quando mi chiedono di fermarmi a guardare un film con loro, a leggere la striscia di un fumetto che li ha fatti ridere. Lo sento mio marito quando annuncia con soddisfazione la programmazione di un film che, lui, guarderà comodamente seduto e con i figli accanto. E sento me rispondere “Adesso non posso amore, mamma ha da fare! Dopo, tra cinque minuti”. Che inevitabilmente diventano mezz’ora, un’ora. Mai.

Tante volte ho letto dell’importanza di rallentare, di ritagliarsi spazi per sé stessi e per chi abbiamo vicino: figli, marito, famiglia, amici. Ma ho sempre pensato che fossero chiacchiere facili e basta.

Ho trovato però la riflessione fatta da Valentina Piccini (l’ironica penna “in equilibrio” del blog Mamme a Spillo) dopo la nascita del suo quarto figlio: un neonato se ne frega dei tuoi impegni, quando ha bisogno chiama, e tu devi fermare tutto e occuparti di lui. Per forza. Ora, i miei figli non hanno più “l’età beata”, di cui lei parla, in cui possono permettersi di non interessarsi al contesto, ed hanno imparato anche loro presto – come i figli di ogni lavoratrice – ad adattarsi a ritmi e routine imposte.

Ma è davvero giusto così?

Per noi e per gli altri, è giusto non sforzarsi mai di rallentare un po’? Davvero non riusciamo mai a mettere da parte un impegno, un passaggio del nostro trantran quotidiano per “concederci” a chi reclama un po’ di attenzione? Le cose da fare sono sempre molte, la società moderna pretende molto e ci assorbe, ma in questo modo ci trasforma in una fila di palline metalliche che non smettono mai di muoversi.


Photo by Clem Onojeghuo on Unsplash

E no, accidenti nana mia, io non ci sto. Perciò ti dico: ricordati di scendere dalla giostra ogni tanto, chè se riporti i piedi in terra e salti un giro, ti diverti molto di più a quello successivo.


I GRANDI E LE DELUSIONI

I delirii online che riverso in questo diario pubblico partono tutti da una riflessione anzi, da una domanda alla quale non riesco ancora a dare una risposta.

Quand’è che una persona diventa grande?

Dipende dall’età? A guardarsi intorno non si direbbe. Magari dal ruolo che uno ha nella società? Non credo. E allora cosa succede, cosa deve scattare nella testa di qualcuno per dire che è “diventato grande”?

Ci ho pensato tanto e mettendo insieme quel che vedo, sento, e quel che vivo, mi sono data una possibile spiegazione.

Si diventa grandi quando si riesce a schermarsi, bene, dalle delusioni.

Ci ho fatto caso: chi riesce a fare spallucce quando le cose non vanno come aveva pensato, o programmato, non solo vive meglio (ovvietà), ma riesce a superare il problema rappresentato dall’intoppo molto più alla svelta. Dico una cosa banale? Magari si, magari per gli altri. Per me è stata un’epifania, una folgorazione sulla via di Damasco, il famoso velo caduto.

Adesso me lo spiego perché io non mi sento grande.

Quando una persona, o una situazione, in cui avevo riposto molte aspettative mi deludono profondamente resto bloccata per un periodo indefinito, sospesa tra l’amarezza, l’autocritrica e lo smarrimento. Perché nelle relazioni, nelle situazioni che mi scelgo io investo molto, in termini di tempo, di pensiero, di energie. E tutto questo investimento costa fatica, spesso anche fisica, ma lo faccio volentieri quando penso che l’altra persona ne valga la pena.
Poi però succede che questo impegno non venga riconosciuto o, peggio, calpestato soprattutto da chi ha sempre usato la propri sensibilità come vessillo di una inesistente empatia. E in quei casi la delusione è davvero cocente. E il senso di impotenza che ti assale. Perchè, di fatto,in questi casi non si hanno difese. Non se sei piccolo, almeno.

I grandi, quelli veri intendo, scrollano le spalle e ripartono di slancio.

O almeno così dicono. Così vogliono farti credere. E magari pure loro sotto sotto rosicano, ma sanno come uscire dall’empasse senza fare figure barbine.

A me non riesce, quanto meno non ancora. Ecco perché ho l’assoluta certezza che no, non sono grande e mi serve del tempo per diventarlo. Resto ancora senza parole quando mi sento ferita, totalmente inerme. E si vede. Come ieri, quando mi sono trovata a respingere un’accusa orrenda da parte di una persona in cui avevo risposto grande fiducia. E speranza.

Speranza, questa è la chiave.

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La delusione per me è il tradimento di una speranza, evidentemente mal riposta, che in questo mondo non ci siano solo cinismo, egoismo, opportunismo e avidità. Purtroppo sono molti gli indizi che dicono che invece è così, e in questo mondo allora no, non voglio diventare grande.

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ANCHE I GRANDI CAMBIANO.

Ma alla fine, cambiare vuol dire crescere o no?

Eraclito diceva “Non c’è nulla di immutabile tranne l’esigenza di cambiare“. Affermazione quanto mai vera. Pensaci nana, quante volte nel corso dei tuoi cinque anni hai desiderato quello che non avevi? Quante volte hai voluto qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui sei abituata? Tante, lo so, perché è nella natura umana, soprattutto nanifera, volere “anche altro”.
Ma dai bambini ci si aspetta questo ed altro, no? Che vogliano il gioco dell’amico, che desiderino la versione più evoluta del videogame, che si stanchino presto di quello che stanno facendo. La domanda vera è: da grandi, riusciamo a trovare un punto di equilibrio, un punto di arrivo in cui essere finalmente soddisfatti di ciò che abbiamo senza necessariamente andare alla ricerca di “altro”?
A quanto pare no. Anche i grandi soffrono della sindrome del perenne cambiamento. Alcune ricerche dimostrano che, ogni anno, due persone su tre pianificano importanti cambiamenti nella loro vita. Che si tratti della ricerca di un nuovo lavoro, l’acquisto di una nuova casa o di un cambiamento interiore, quasi il 70% della popolazioen adulta continua a tendere verso il cambiamento. Non ci fermiamo, non siamo contenti, non siamo soddisfatti. Mai.
Certo questo non vale per tutti: ci sono persone che preferiscono restare dove sono, più per paura delle novitò che per vera soddisfazione. ma ti cinfesso che leggere di quella ricerca mi ha consolato. Mi descrive perfettamente, IO sono così! Sono sempre stata così. Pensavo di avere un problema, con questa perenne ricerca di qualcosa di “altro”; pensavo di essere come te, una bambina perennemente scontenta che si stanca subito del gioco nuovo. Invece no, sono solo una come tanti altri adulti. E ho fatto dell’esigenza di cambiare uno stile di vita. Come una crisalide.
Certo, i miei risultati non sono sempre stupefacenti come le ali di una farfalla, anzi, qualche volta nemmeno arrivano. Tuttavia gli insuccessi non mi scoraggiano e, soprattutto, non fanno venire meno il mio desiderio di evolvere e di migliorare.
No, non ti sto consigliando di saltare di fiore in fiore come una farfalla nana mia, quello sì che sarebbe patologico; i cambiamenti vanno ponderati con attenzione, pianificati, e non sono poi tanti quelli che meritano di essere perseguiti seriamente. Ma ho imparato con il tempo che desiderarli non è sbagliato, non è indice di immaturità o inaffidabilità. E ammesso e non concesso che sia “da bambini” volere sempre qualcos’altro, chi lo dice che agire da grandi in questi casi porti più lontano?
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MA DA GRANDE, I GRANDI LI CAPISCI?

caprire i grandi

Io questa domanda, cara la mia nana, me la sono fatta molte volte e non solo a cinque anni. Perché è vero, a volte i grandi non sono facili da capire, le dinamiche che guidano i loro rapprti, le motivazioni dietro le loro scelte non possono essere decifrate da chi usa una tovaglia come mantello.

I grandi sono un gran casino, a dirla tutta.

Perché da grandi, spesso, si perde il senso delle cose importanti; si, lo si dice “l’importante è la salute, avere vicini i propri affetti”, ma poi di fatto nella vita di tutti i giorni, i grandi si incazzano per cose che, nella logica di una bambina di cinque anni, sono totalmente illogiche. Il lavoro, il traffico, il posto macchina lontano, il collega, gli impegni, il bicchiere con l’acqua che si rovescia. Sembra che ogni cosa che non va per il verso giusto debba scarturire una reazione rabbiosa. E poi la fretta, il tempo che sembra non bastare mai, e “dai che ho da fare, sbrigati che devo passare dal macellaio, e muovitiiiii!”

E io questo pensavo a cinque anni, in pratica quando ero  come te anzi, quando ero te:

da grande uno è sempre di corsa e sempre arrabbiato.

C’è un’altra cosa che non si capisce dei grandi:

il modo di gestire i segreti.

Da bambino, ma pure da adolescente su, quando un tuo amico ti confida un segreto fai mille spergiuri sul tuo silenzio, e te lo porti fino alla tomba, perché quella confidenza, quel momento in cui un cuore si apre ad un altro, ti fa sentire legato ad una persona, vicini come altri non possono capire, speciale.

I grandi no, i segreti non li sanno tenere. Giocano al telefono senza fili, solo che lo fanno in piccoli gruppi e non nella stessa stanza; si sussurrano le cose che “oh, ma io non te l’ho detto” e ammiccano. Quello che non cambia è il risultato finale: il messaggio arriva comunque a destinazione completamente falsato e generalmente crea molto più scompiglio di quanto non farebbe la notizia in sé.

“Mah, tanto quando divento grande le capisco pure io queste cose”.

Ecco io questo pensavo, tu lo sai no? Solo che no, adesso che in teoria ho l’età dei grandi, io, i grandi, mica li capisco! Deve essere vero quello che dicono, essere grandi non è una condizione legata all’età; magari devi esserlo dentro, devi esserlo a prescindere e da sempre.

Avrebbero dovuto spiegarmelo però, a 5 anni, che mi stavo illudendo, che passate le elementari da A a B non si riesce ad andare più in linea retta. Non si riesce, perché veniamo pian piano catturati da un sistema che ci costringe a costruire tante di quelle sovrastrutture, tanti di quei cliché e luoghi comuni che non riusciamo più a vivere senza. No, non esagero affatto. Vuoi un esempio? L’abito fa il monaco per i grandi, eccome!

E quei pochi (disgraziati!) che non si ritrovano in questo meccanismo sono considerati ingenui e naïf. Disadattati comunque.

Certo, ovvio: anche io rientro in questa categoria, cosa credi? Me ne sono accorta da tempo ormai, la maggior parte dei grandi, anziché suscitarmi sentimenti di solidarietà mi sciocca a morte. E non ridere tu lì, perché hai una fretta terribile di superare sti maledetti cinque anni, che sono invece la tua salvezza. E tu non lo sai.

Photo credits: Freepick

QUANDO DIVENTO GRANDE

sogni_di_bambino

Quando divento grande sarò…

Questa frase sgrammaticata l’abbiamo pronunciata tutti da bambini, nessuno escluso.

I nostri genitori, i parenti, sono stati sicuramente testimoni involontari di dichiarazioni d’amore per questa o quella professione, di improvvisi innamoramenti legati alle più disparate attività, e di altrettanto improvvise disillusioni.

Ricordo una compagna di classe, ad esempio, che si diceva indecisa tra fare la modella o la suora di clausura. Non so che cosa faccia oggi sinceramente, decisamente non sarà donna di scienze (negata, poverella); ma il suo sogno di bambina mi è sempre rimasto impresso e mi ha ispirato, recentemente, una riflessione.

Quanti di quei sogni che abbiamo espresso da bambini si sono avverati? Quante sono le volontà di ferro che si sono palesate a 5 anni?

Personalmente sono stata una frana. In costanza innanzi tutto, dato che ho cambiato idea almeno tre volte a stagione; e in perseveranza, perchè una volta scelto l’obiettivo, e relativo corso di studi, non sono arrivata fino in fondo.

Perchè? Ecco, se avessi ora questa risposta non stari a tediare voi con le mie chiacchiere.

Non lo so perchè, non conosco davvero i motivi per cui non sono, oggi a 38 anni, ciò che avrei voluto essere a 5 anni, e a dirla tutta non ricordo nemmeno chi volessi essere allora. Ma sono sicura, sicurissima che non fosse ciò che sono ora. Ovviamente so che l’entusiasmo, la scarsa consapevolezza delle problematiche che si affrontano nel corso della vita, altrimenti detto, l’incoscenza e l’innocenza che si hano da bambini si perdono per strada. Ma dove, quando mi è successo?

Dove ha battuto le sue ali la farfalla in questi 33 anni? Quale o quali eventi hanno scatenato il mio personale tifone?

Per chi se lo stesse chiedendo, non sto facendo la vaga sulla mia attuale professione, è che ho cambiato lavoro da poco e, in totale onestà, non so se quando questo post verrà pubblicato sarà ancora lo stesso.

Photo credits: Freepik