MA DA GRANDE, I GRANDI LI CAPISCI?

caprire i grandi

Io questa domanda, cara la mia nana, me la sono fatta molte volte e non solo a cinque anni. Perché è vero, a volte i grandi non sono facili da capire, le dinamiche che guidano i loro rapprti, le motivazioni dietro le loro scelte non possono essere decifrate da chi usa una tovaglia come mantello.

I grandi sono un gran casino, a dirla tutta.

Perché da grandi, spesso, si perde il senso delle cose importanti; si, lo si dice “l’importante è la salute, avere vicini i propri affetti”, ma poi di fatto nella vita di tutti i giorni, i grandi si incazzano per cose che, nella logica di una bambina di cinque anni, sono totalmente illogiche. Il lavoro, il traffico, il posto macchina lontano, il collega, gli impegni, il bicchiere con l’acqua che si rovescia. Sembra che ogni cosa che non va per il verso giusto debba scarturire una reazione rabbiosa. E poi la fretta, il tempo che sembra non bastare mai, e “dai che ho da fare, sbrigati che devo passare dal macellaio, e muovitiiiii!”

E io questo pensavo a cinque anni, in pratica quando ero  come te anzi, quando ero te:

da grande uno è sempre di corsa e sempre arrabbiato.

C’è un’altra cosa che non si capisce dei grandi:

il modo di gestire i segreti.

Da bambino, ma pure da adolescente su, quando un tuo amico ti confida un segreto fai mille spergiuri sul tuo silenzio, e te lo porti fino alla tomba, perché quella confidenza, quel momento in cui un cuore si apre ad un altro, ti fa sentire legato ad una persona, vicini come altri non possono capire, speciale.

I grandi no, i segreti non li sanno tenere. Giocano al telefono senza fili, solo che lo fanno in piccoli gruppi e non nella stessa stanza; si sussurrano le cose che “oh, ma io non te l’ho detto” e ammiccano. Quello che non cambia è il risultato finale: il messaggio arriva comunque a destinazione completamente falsato e generalmente crea molto più scompiglio di quanto non farebbe la notizia in sé.

“Mah, tanto quando divento grande le capisco pure io queste cose”.

Ecco io questo pensavo, tu lo sai no? Solo che no, adesso che in teoria ho l’età dei grandi, io, i grandi, mica li capisco! Deve essere vero quello che dicono, essere grandi non è una condizione legata all’età; magari devi esserlo dentro, devi esserlo a prescindere e da sempre.

Avrebbero dovuto spiegarmelo però, a 5 anni, che mi stavo illudendo, che passate le elementari da A a B non si riesce ad andare più in linea retta. Non si riesce, perché veniamo pian piano catturati da un sistema che ci costringe a costruire tante di quelle sovrastrutture, tanti di quei cliché e luoghi comuni che non riusciamo più a vivere senza. No, non esagero affatto. Vuoi un esempio? L’abito fa il monaco per i grandi, eccome!

E quei pochi (disgraziati!) che non si ritrovano in questo meccanismo sono considerati ingenui e naïf. Disadattati comunque.

Certo, ovvio: anche io rientro in questa categoria, cosa credi? Me ne sono accorta da tempo ormai, la maggior parte dei grandi, anziché suscitarmi sentimenti di solidarietà mi sciocca a morte. E non ridere tu lì, perché hai una fretta terribile di superare sti maledetti cinque anni, che sono invece la tua salvezza. E tu non lo sai.

Photo credits: Freepick

I BILANCI DEI GRANDI

seasons greetings

Quando diventi grande i pochi giorni che precedono il Natale, o le feste di fine anno in generale, le passi a fare bilanci su quanto fatto nel corso dell’anno che sta per finire.

E’ una cazzata mondiale!

Sti bilanci, tanto per cominciare, non quadrano mai. Non quadrano perché all’inizio dell’anno ci poniamo obiettivi non realistici sull’onda emotiva dei recenti fallimenti. Abbiamo la tentazione di recuperare quello che non abbiamo fatto tutto insieme, come quando al liceo ti facevi l’impanzata di filosofia prima dle compito, una strage! E chiediamo troppo a noi stessi, siamo tremendamente seri e pallosi quando stiliamo la “lista degli obiettivi per il prossimo anno”.

Basta, sfatiamo sto mito.

Per la fine di questo 2016 io non farò bilanci, sono viva e già è tanto, considerando tutta la gente che è morta in questo anno. E per quello che verrà, per il 2017, ecco la mia “to do list”.

  • voglio portare la mia famiglia all’estero un fine settimana, l’inglesaccio ok ma soprattutto i mostri. Voglio divertirmi nel vederli trovare la loro via per comunicare con chi non parla la loro lingua, voglio vederli assaggiare una cosa che qui non troverebbero mai, voglio sentire dalle loro voci cosa provano a sentirsi “diversi” dalla massa;
  • voglio comprarmi un colouring book e darci dentro di pastello a cera come se non ci fosse un domani. E’ un’altra maniera di staccare la spina.
  • voglio imparare ad usare due funzioni di Photoshop, lo scontorno e la sfumatura. No, non mi cambierà la vita, ma mi renderà un po’ più autonoma nel mio lavoro ed eviterà alla mia collega la rottura di balle di passarmi sempre il file mezzo lavorato. E poi voglio impararlo.
  • voglio andare ad un concerto con l’inglesaccio. Si lo so, gli fa male la schiena, poi non ama la ressa ed è asociale. Per una sera farà eccezione: ha bisogno anche lui di scrollarsi le mille sovrastrutture che si è costruito in quasi 45 anni di vita e voglio vederlo scatenarsi sul serio!!
  • voglio vivere di momenti. Non in senso assoluto, io sono una che pianifica e incastra impegni ed eventi per avere sempre tutto sotto controllo, non posso cambiare così tanto e francamente non ci tengo. Ma voglio vivere i momenti inaspettati anzichè contrastarli, voglio gustarmi quelli belli che capitano quando sei impegnato a fare altro. Voglio vivere di momenti.
  • voglio trovare il tempo per gli amici. Formare una famiglia, comprare una casa, affrontare qualche difficoltà con i figli, sono tutte cose importanti che ci assorbono tempo ed energia e fanno parte di una routine in cui tutti, con tempi diversi, ci troviamo. Io voglio avere il tempo di fare una chiamata con calma, di presentarmi sotto casa per un caffè, di preparare un piatto di pasta per 10 all’ultimo minuto. Voglio vivere di momenti anche con loro.

A te, nana del mio cuore, un augurio speciale: che questo nuovo anno ti porti sorrisi, fiori, corse in bicicletta, i cartoni con le amiche, la treccia alla francese e la gonna a ruota.

Per il resto c’è tempo, quando diventerai grande.

Buone Feste!

QUANDO UN NANO TI CAMBIA LA VITA: IL LAVORO DA MAMMA

quando il nano ti cambia la vita

Quando io e il britannico abbiamo deciso che ci necessitava un altro giocatore di Tressette, non avevamo idea del guaio, enorme e bellissimo, in cui ci saremmo andati a cacciare. Perché, nana mia te lo dico, hanno ragione quando ti dicono che fare il gentore è complicato, ma tanto finché non ti ci trovi non ci credi.

Quando poi cresci, anche senza diventare grande, te ne accorgi.

Non voglio tediarti con tutte le epifanie tardive che ho avuto, d’altra parte non è che una lo sa a 5 o a 16 anni che fare la madre è una fatica ercùlea. Una se la gode no, a quell’età. Ti basti comunque sapere che i cambiamenti che sarai costretta ad affrontare sono tanti, tantissimi. E quando penserai di aver fatto il grosso, ti capiterà di rimettere in discussione certezze che avevi creduto granitiche.

Il lavoro è una di queste. Anche la più emancipata delle donne, la più libera da sovrastrutture inutili,  la più figa in breve, dovrà fare i conti col nuovo ménage e il tetris pazzesco in cui si viene catapultati. E ti trovi costretta a cambiare molte cose.

Io, ad esempio, ho cambiato lavoro.

Dopo quasi cinque anni passati a lavorare come tour leader, durante i quali ho avuto due figli e cambiato Regione, ho capito che per quanto amassi il mio lavoro non avrei potuto conciliarlo serenamente con la maternità. So che altre ragazze lo hanno fatto, e le ammiro – e invidio! – moltissimo. Ma, vuoi per carattere, vuoi perché anche il britannico era sempre in viaggio, vuoi perché nessuno mi ha mai spronato davvero a resistere, ho ceduto alla tentazione di un posto fisso in un ufficio. Cinque minuti di macchina (sette se alla rotatoria hai l’omino col cappello davanti), otto ore più o meno fisse, gestione “casa&bottega” meno problematica. Ho iniziato a lavorare in un’agenzia di comunicazione.

“Mi hanno cercata loro, pensa!”

Andavo ripetendo sta frase a chi si informasse della mia condizione lavorativa. Sorpresa, io stessa, di come il piccolo centro fosse maledettamente operativo col passaparola. Avrei dovuto saperlo che le “botte di culo” secche esistono solo nei film e quelle nella vita reale, invece, hanno un costo.

quando un nano ti cambia la vita
Magari un tantinello enfatica, si, ma per rendere il concetto!

Il mio è stato la libertà. Avevo trovato, nei viaggi, nei congressi, nei congressisti, nelle colleghe (le mie adorate colleghe!), nella mia natura gitana la mia dimensione, il mio Nirvana. E anche se so che non è politicamente corretto, quella stessa dimensione non la ritrovo la sera varcando il portone di casa: trovo risate, braccia al collo, cene da preparere, racconti di scuola, panni sporchi e tanto amore, ma non quel senso di soddisfazione personale, intima, che avevo prima.

Sai quale sarà la cosa difficile nana? Fare in modo che i due nuovi giocatori di Tressette non lo scoprano. MAI.

 

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MODALITA’ GIPSY ON: NUOVI PORTI ALL’ORIZZONTE

modalità gipsy on

Bene nana, dopo una serie di excursus è il caso di riprendere quella che sarà la tua storia professionale dove l’avevamo lasciata.

Nella disperazione.

Dopo la permanenza di nove mesi nell’ufficio romano dove non riuscivo ad adattarmi, all’alba dei trent’anni, ho iniziato a fare il bilancio di quanto fatto fino ad allora, ed è risultato pessimo.

Stavo diventando grande e non avevo costruito niente

Questo mi ripetevo ogni giorno. Da nana cinqueenne pensavo che da grande (ebbè dai, a trenta non sei vecchia ma agli occhi di una bambina sei legittimamente grande!) avrei avuto una fulgida carriera all’interno di un’azienda illuminata, scalando tutte le posizioni da centralinista ad amministratore delegato. E invece ero lì, a Roma, senza un titolo onorifico, una carriera, un lavoro.

O meglio, il lavoro c’era in realtà, che nana si ma scema no, mi ero tamponata la situazione. Semplicemente, avevo ricontattato un’agenzia per cui avevo lavorato come hostess e avevo quindi preso qualche impegno di quel genere, giusto per non stare con le mani in mano. Con una piccola differenza rispetto all’origine: avrei dovuto seguire i gruppi di congressisti accompagnandoli in alcuni spostamenti e risiedendo con loro in albergo.

Signore e signori, ecco a voi la Tour Leader.

E lì è scattata la molla.

Ho scoperto che mi piaceva girovagare per il centro-sud Italia al seguito di gruppi di vario tipo, dal settore medico a quello industriale, seguire le loro necessità e accertarmi che quanto pattuito dalle agenzie di eventi venisse in effetti messo in pratica. Oddio, era un lavoraccio eh, a chi mi chiedeva in quel periodo cosa facessi rispondevo sempre: “Pascolo le pecore”, che non era poi così lontano dal vero.

Ero contenta però; visitavo posti nuovi, o anche vecchi ma sotto una luce diversa; viaggiavo in treno o in aereo comodamente; soggiornavo in alberghi dalle quattro stelle in su – quasi sempre! – e mangiavo in ristoranti selezionati con dei menù da leccarsi i baffi.

6cf5a4506eMa soprattutto, ero brava.

Ecco non è boria ma verità vera. Ero brava nel mio lavoro, perché mi piaceva prendermi cura delle persone, fare in modo che il viaggio o il congresso o quel che era fosse un’esperienza piacevole. Ci tenevo proprio. Avevo feedback positivi dai partecipanti ai vari eventi e dalle agenzie, tanto che dopo pochi mesi ho aperto la Partita Iva, perché lavoravo a tempo pieno. Si, ebbene, freelance anche io.

Credo che i quattro anni passati a lavorare come Tour Leader siano stati quelli più felici, professionalmente parlando. C’era l’incertezza della chiamata, dell’assegnazione del viaggio più o meno importante o del contatto con l’agenzia che pagava diarie migliori. Ma ero davvero, davvero felice. L’unico, insignificante, minuto neo è il fatto che la nana ha scoperto di avere l’animo zingaro.

E mo fermala.

 

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QUANDO DIVENTO GRANDE…

imparare a dire no

… imparo a dire NO

Ma dei NO belli grossi, sonori e rotondi. Ché non si può fare orariacci notturni per fare il doppio lavoro.

Non è vero invece, non dirò mai questi NO, perché infondo mi piace essere tirara per la giacchetta; avere chi ti chiede: “Oh Leti, mi daresti una mano con questo progetto?” Che poi gliela dai la mano, e ti ci infogni.

O forse, da grande non si riesce a dire più quei NO belli secchi e basta.

Comunque sia, io sono ancora qui che faccio ricerche, ma con un sonno, ma un sonno che tu nana mia, non hai idea…

“IL MONDO E’ FATTO A SCALE, CHI E’ FURBO PRENDE L’ASCENSORE”

go the extra mail

E secondo voi, a quale categoria possiamo mai appartenere, io e la nana che si rifiuta di diventare grande?

No, non serve che rispondiate, è già abbastanza avvilente così.

Dunque, dicevamo nel post precedente che, ad un certo punto della mia onorata carriera di segretaria di direzione, ho mollato e ho preferito la pace mentale al vile denaro, il rapporto di coppia alla scalata al potere, un Progetto ad un Contratto.

Capito cosa indendo?

Ho accettato un contratto a progetto con pari stipendio si, ma ho chiaramente annullato una serie di benefits cui prima avevo accesso. E la cosa bella, che se ci penso prenderei la rincorsa verso lo spigolo, è che l’ho fatto consapevolmente e felice di farlo.

scelta sbagliata nel lavoro

E vabbè, per diventare grande serve anche l’esperienza no?

Ecco questa è durata 9 mesi, precisi precisi. Poi ho partorito l’idea che no, nemmeno quello era posto per me, quindi via, veloce come il vento. Talmente veloce che non penso valga nemmeno la pena raccontare cosa abbia fatto in quel lasso di tempo. Mi soffermerei piuttosto su cosa ho imparato da quella situazione, particolarmente formativa per una nana in crescita.

Si tratta di un concetto, un’idea espressa con un anglicismo che descrive in maniera sintetica un atteggiamento sul posto di lavoro: go the extra mile. Molto semplicemente, significa fare un ulteriore sforzo rispetto a quanto fatto al momento, un’esortazione a dare il 110% in pratica.

Perchè? Mah, all’epoca sinceramente pensavo fosse un’invenzione per cercare il pelo nell’uovo e scassare un filino le balle ai dipendenti. Poi però, complice l’ineluttabile processo di crescita e maturazione, ci ho riflettuto meglio e ho scoperto che quei 9 mesi avevano anche lasciato dentro di me il germoglio di un nuovo modo di pormi nei confronti del lavoro.

Da qui la citazione, magistrale!, nel titolo dell’impareggiabile Marcello Marchesi, perché se fossi stata furba avrei dato a quell’esperienza più tempo per mettere bene radici dentro di me, crescere e dare i suoi frutti.

Mi piace pensare che, come i frutti climaterici, questo nuovo approccio al lavoro sia maturato in me poco alla volta, dopo la prematura raccolta. Va bene dai, questo step alla fine non è stato poi male, no nanifera?

 

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CHI S’ACCONTENTA GODE. FORSE.

vita da ufficio

Altrimenti detto: ma quando divento grande, imparerò a ragionare prima di agire?

Sembrava tutto a posto no? Prima, dico, sembrava andare tutto bene: un nuovo lavoro, nuovo ufficio in una zona molto bella dell’Urbe, nuovi colleghi, nuova routine, nuove conoscenze. Insomma, un bel pacchetto preconfezionato pieno di cose tutte da scoprire. Figo!

E invece no, no proprio. Perché dopo un anno e mezzo vissuto pericolosamente (a parte Marja, che è stata mia collega solo per 6 mesi, solo uomini in ufficio), dopo aver conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito (il famoso terzo incomodo della foto che trovate qui), ho deciso che quel lavoro non faceva per me.

Stolta nana cinqueenne che hai fretta di crescere!

Ok, facciamo un momento di chiarezza. La mia permanenza in quella azienda, un broker aereo per la cronaca, può essere divisa in tre periodi di sei mesi ciascuno: i 6 mesi di aspettativa di Marja, i 6 mesi di compresenza con Marja e gli ultimi 6 mesi in cui Marja non ha più lavorato lì. L’ultimo periodo, che chiameremo il periodo nero, è stato il più difficile, non solo perché non c’era più una collega con cui condividere lavoro e chiacchiere, ma anche perché l’assetto dell’ufficio si era andato modificando poco alla volta ed era proporzionalmente aumentato il nervosismo. Il motivo? Due fattori: il nuovo capo, un ex militare che cercava di portare la struttura della caserma in via Boncompagni; il lavoro che iniziava a scarseggiare, e i guadagni a diminuire.

In questa situazione il mio ruolo si era pian piano modificato: da segretaria di direzione a contabile. Con tutto il rispetto per la categoria, una che ha sempre pensato che lo scorporo dell’Iva fosse una forma di tortura medievale, ecco no, tenere i conti non era proprio il massimo. E man mano che passavano le settimane, ogni mattina i tre piani di scale che mi portavano al portone di legno scuro diventavano la conquista del K2.

conti e scartoffie

Altra nota di colore: nel frattempo, il bellimbusto di cui sopra (mio marito, non l’ex militare) era venuto a vivere con me, nel mio buen retiro a Trastevere. Essendo anche colleghi, sono stata automaticamente trasformata anche nella sua segretaria personale, per cui chiunque lo cercasse fuori orario di ufficio si sentiva in diritto di chiamare me. Sempre. Anche al cellulare privato. E no, non è bello scatafossarsi fuori dalla doccia per acchiappare il telefono e sentirsi dire: “Oh ma non mi risponde, dove sta?”

Quindi, data la situazione, complice una serrata “corte lavorativa” da parte di un nostro fornitore e la solita dose di incoscenza, ho rassegnato le dimissioni. Vai, adieu! Tanti saluti a casa eh.

Dici: ci sta, succede nella vita lavorativa di cambiare. Tecnicamente però, il cambiamento dovrebbe avvenire in meglio, e uno dovrebbe strappare condizioni lavorative più vantaggiose, giusto? Era così?

Senti nana, mi sa che quando Lassù distribuivano i “lampi di genio”, te eri in fila per la dabbenaggine. Secondo giro.

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CERCARE LAVORO IN UNA GRANDE CITTA’. QUANDO UNA BIONDA TI SALVA LA VITA.

bionda_finlandia

Ovvero, di come “disoccupato è bello”, se per poco.

Nel post precedente ho raccontato di come fosse giunta a prematura fine la mia prima esperienza di lavoro a tempo determinato. Un po’ di dispiacere si, ma senza grossi drammi: alla fine mi trovavo a Roma, una grande città ricca di opportunità, di crisi economica ancora non si parlava e il mondo, nonostante la disoccupazione, era ancora rosa. Tra l’altro, va ricordata l’esistenza della famosa zia dell’Urbe, la cui rete di contatti era, ed è, a dir poco fitta. Confidavo molto, forse troppo,  in un intervento semi-divino. Giovane e sconsiderata…

Non potevo immaginare che l’aiuto vero sarebbe venuto dal Nord.

In una fredda e affannata mattina di sciopero dei mezzi, uno dei tanti, ho sperimentato l’effetto “carràmbata” sulla mia pelle. Alla fermata del tram, preso per l’appunto ad un orario diverso dal solito, ho incrociato lo sguardo con una figura eterea, alta, bionda, occhio ceruleo, tratti somatici palesemente nordici e italiano perfetto. Svedese. No aspe, finnica. No oh, Marja!!

Ebbene si, la mia tutor dell’Erasmus, conosciuta 4 anni prima a Turku, era a Roma, davanti a me, alla fermata del tram.

Brevissimo recap: dal gennaio al maggio del 2000 ho preso parte al Progetto Erasmus (fatelo,  fatelo, fatelo!) in Finlandia e Marja mi era stata assegnata come tutor. Si è rivelata una guida attenta e gentile, indispensabile in quei primi momenti di smarrimento. Con la mia partenza, la distanza, le nostre strade si  sono separate poco alla volta, non potevo quindi sapere che stesse lavorando a Roma e che abitasse a poche decine di metri da casa mia. Dopo un iniziale momento del tipo “che ci fai tu qui? no che ci fai tu? oh che bello, mamma mia non sei cambiata affatto” e similia, siamo passate velocemente alla parte lavorativa.

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Marja in primo piano, io al centro. Del terzo elemento parleremo più avanti.

E così dopo il suo “lavoro qui ma sto pensando di prendere un’aspettativa per terminare la tesi” ho risposto con “lavoro lì ma chiudiamo tra un mese e sarò disoccupata”. E’ stato un attimo: potrami il curriculum che lo sottopongo al Direttore. Due sere dopo ero a casa sua, un’italiana, una finlandese e due spagnole, a fare un riassunto di circa 4 anni di vita, viaggi, amori, decisioni e avvenimenti. Uno dei momenti più divertenti della mia permanenza romana, devo dire.

Come è andata a finire l’ho già detto nel titolo di questo post: tredici giorni dopo la fine del precedente contratto ho ricevuto una chiamata dal suo ufficio, 48 ore dopo ho firmato il nuovo contratto di lavoro.

Quando una bionda ti salva la vita, lo fa alla grandissima. Segna, nana.

bionda_finlandia
Un intenso primo piano di Marja, ex bionda, cosmopolita per vocazione.

Photo credits: Marja’s Facebook page

LA PRIMA VOLTA CHE HO PAGATO LE BOLLETTE. A ROMA.

contratto da grande

Ovvero, la prima volta che ho avuto un contratto da grande che mi permetteva di farlo.

Chi di voi non ha una zia fuori sede che conosce mezzo mondo? E chi di voi non ha un parente, anche lontano, a Roma? Nel mio caso, le due persone coincidono e si condensano in una creature che ha il pallino di far incontrare domanda e offerta. Una pioniera del direct marketing, in pratica. Tralascio i dettagli meno significativi e vado al dunque: ad un anno e mezzo dalla laurea mi trasferisco a Roma, per lavorare alle dipendenze di un imprenditore partenopeo che mi offre un contratto a tempo indeterminato.

VA-BE-NE. Sveliamo subito la parte negativa. Facevo il commerciale; vendevo, nella fattispecie, calendari da scrivania e da parete, agende da borsetta, planning da tavolo e una serie di altre amenità, tutte personalizzabili con logo del(l’ipotetico) cliente. Eh, si. Senza scordare “l’aggravante”, cioè che il tutto aveva un taglio molto, molto classico, quasi troppo. Tipo fine ‘800, per essere precisi. Vabbè, esperienze.

Al di là della mansione, comunque, era un contratto maledettamente vero, e serio. E a tempo indeterminato! Francamente, non che all’epoca pensassi di accendere un mutuo, comprare una macchina, prendere un finanziamento, ma quella parola, “indeterminato”, scritta nero su bianco giustificava ampiamente:

  • il trasferimento;
  • l’affitto di un monolocale da chiamare casa;
  • lo stravolgimento della mia intera routine;
  • la totale autogestione di vita/finanze/tempo libero/viaggi;
  • l’acquisto di un borsa (che fa sempre la sua porca figura).

Mi faceva un certo effetto, confesso, sapermi a 26 anni in un’altra città, padrona del mio destino (chiaramente fuori dagli orari di lavoro), autonoma e indipendente, con la possibilità di fare nuove esperienze, nuove conoscenze, nuove cazzate. Tutto. La nana cinqueenne era felice: aveva scoperto di avere uno spirito gitano, il trasferimento le giovava molto.

Sono stati 17 mesi molto intensi, importanti. Ho imparato molto nel lavoro, ma molte di più sono state le lezioni di vita apprese. Avere a che fare ogni giorno con persone diverse, relazionarsi con microcosmi distanti tra loro, mi ha insegnato a settare il mio registro su vari livelli, ad entrare in empatia col mio interlocutore, a filtrare i pensieri e far uscire solo quelli leciti. Soprattutto quando, ebbene si, l’azienda ha deciso di chiudere i battenti e di ri-trasferire la sede distaccata di Roma, di cui ero unica dipendente, a Napoli. E no, io non ero compresa nel trasloco. Mi è dispiaciuto, alla fine, interrompere la mia carriera di venditrice, cominciava a piacermi tutto sommato.

Ma quell’avventura è stata l’inizio di una nuova storia, che ha fatto approdare la nana cinqueenne ad una vita molto diversa da quella che si era immaginata. Migliore o peggiore non lo sa ancora. 

nuova avventura

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SODDISFAZIONI NERO SU BIANCO: IL PRIMO CONTRATTO

firmare primo contratto
Il primo contratto, le grandi manovre.

La prima volta che metti la firma su un contratto non te la puoi scordare: se ne parla prima qualche giorno, prendi accordi verbali, discuti, chiacchieri. E poi arriva il momento in cui, penna alla mano, devi mettere la tua firma sopra una riga sottile infondo a destra.

MINOLTA DIGITAL CAMERA

Gioia, gaudio e tripudio.

Ci provi, per mezzo secondo, a leggere tutte le righe, perché ti hanno insegnato che è buona cosa farlo, è saggio. Ma al terzo comma l’adrenalina va a mille e poi, oh insomma, è il primo contratto, ci sta che l’emozione ti faccia fare una boiata. Esattamente quello che ho fatto io, sic et simpliciter.

La cosa smisuratamente figa è che non ho avuto alcun problema per fortuna, nonostante la leggerezza dell’epoca. E, cosa ancora più ostentatamente figa è che il primo contratto di lavoro l’ho firmato con una compagnia teatrale. Ecco, in quell’occasione ho realizzato uno dei “quando divento grande” della nanifera cinqueenne.

Ebbene si, ho fatto l’attrice.

Per un meraviglioso, sconvolgente e frastornate anno intero, ho avuto regolare contratto con una compagnia sperimentale del perugino e ho lavorato nei laboratori teatrali con e per i bambini. E ho fatto una marea di scoperte, che chiaramente non posso tacervi.

attrice teatro

Primo. I bambini sono fantastici. Così ricettivi, così aperti a qualunque assurdità tu proponga, disponibili a leggere la realtà da un’altra prospettiva. Così maledettamente impegnativi, perché a diffreneza di un adulto senziente, loro lo spettacolo non hanno scelto di vederlo, si trovano lì perché portati. Imparare ad ascoltare la loro attenzione, a leggere il loro livello di interesse è stata una delle sfide più grandi che ho affrontato.

Secondo. Ho fatto una breve tournée insieme ad un’altra attrice, ospiti di una compagnia di Udine per un mese e mezzo. Sei settimane immerse nelle atmosfere pre-lagunarei di quella Terra di Mezzo che è la Bassa Friulana. A parte il fatto che ho mangiato divinamente, ho finalmente capito il senso, ultimo e profondo della canzone vincitrice di nonsoquale edizione di Sanremo “Luce – Tramonti a NordEst“. Sono un’altra cosa, davvero, un’altra luce, un altro guardare. Tanta, tanta roba.

Terzo. Ho assaporato la vita dell’artista. Mi piaceva proprio gustare la parola ARTE, ripetere a me stessa e agli altri, soprattutto agli altri: “no, perchè sai IO SONO UN’ATTRICE TEATRALE“. Con una certa boria anche eh, va detto. Che poi glielo dici tu di no a un regista/produttore che ti chiede di far e un film, nel caso capitasse? Eccomeno, ci credo proprio! Insomma, con un certo compiacimento, a chi me lo chiedeva, rispondevo che si, facevo quel lavoro lì. Ecco, questo ho scoperto poi essere un chiaro indice di quanto io stessa fossi ottusa, probabilmente più di quanto non lo fossero i miei interlocutori.

Diciamoci la verità: in Italia il modo di dire “impara l’arte e mettila da parte” significa che devi rinunciare a vivere dignitosamente di un mestiere artistico, perchè considerato non serio ed effimero dai più. Eppure siamo un popolo di poeti si diceva, e la poesia è ben arte! E io non avevo capito che stavo facendo un lavoro serio, per il quale avevo anche una preparazione decente (e sudata); un lavoro, esattamente come il commercialista, l’operatore ecologico, il web writer. Becera come pochi, mi gloriavo di fare un mestiere poco comune, soprattutto difronte agli scettici.

attrice teatrale lavoro

Comunque poi alla fine hanno avuto ragione loro. Nel senso che ho ceduto alle lusinghe di un impiego più “normale“, per quanto sull’aggettivo sarebbe da aprire una parentesi enorme, e magari lo farò. Ma tant’è, ormai è andata così; anche in quella occasione, e forse in quella più di altre, ho lasciato che fattori esterni mi facessero deviare dai miei propositi originari. E forse, lavorativamente parlando, questo è uno dei rimpianti più grandi.

Forza, nana, levati il trucco di scena. Sipario.

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