“IL MONDO E’ FATTO A SCALE, CHI E’ FURBO PRENDE L’ASCENSORE”

go the extra mail

E secondo voi, a quale categoria possiamo mai appartenere, io e la nana che si rifiuta di diventare grande?

No, non serve che rispondiate, è già abbastanza avvilente così.

Dunque, dicevamo nel post precedente che, ad un certo punto della mia onorata carriera di segretaria di direzione, ho mollato e ho preferito la pace mentale al vile denaro, il rapporto di coppia alla scalata al potere, un Progetto ad un Contratto.

Capito cosa indendo?

Ho accettato un contratto a progetto con pari stipendio si, ma ho chiaramente annullato una serie di benefits cui prima avevo accesso. E la cosa bella, che se ci penso prenderei la rincorsa verso lo spigolo, è che l’ho fatto consapevolmente e felice di farlo.

scelta sbagliata nel lavoro

E vabbè, per diventare grande serve anche l’esperienza no?

Ecco questa è durata 9 mesi, precisi precisi. Poi ho partorito l’idea che no, nemmeno quello era posto per me, quindi via, veloce come il vento. Talmente veloce che non penso valga nemmeno la pena raccontare cosa abbia fatto in quel lasso di tempo. Mi soffermerei piuttosto su cosa ho imparato da quella situazione, particolarmente formativa per una nana in crescita.

Si tratta di un concetto, un’idea espressa con un anglicismo che descrive in maniera sintetica un atteggiamento sul posto di lavoro: go the extra mile. Molto semplicemente, significa fare un ulteriore sforzo rispetto a quanto fatto al momento, un’esortazione a dare il 110% in pratica.

Perchè? Mah, all’epoca sinceramente pensavo fosse un’invenzione per cercare il pelo nell’uovo e scassare un filino le balle ai dipendenti. Poi però, complice l’ineluttabile processo di crescita e maturazione, ci ho riflettuto meglio e ho scoperto che quei 9 mesi avevano anche lasciato dentro di me il germoglio di un nuovo modo di pormi nei confronti del lavoro.

Da qui la citazione, magistrale!, nel titolo dell’impareggiabile Marcello Marchesi, perché se fossi stata furba avrei dato a quell’esperienza più tempo per mettere bene radici dentro di me, crescere e dare i suoi frutti.

Mi piace pensare che, come i frutti climaterici, questo nuovo approccio al lavoro sia maturato in me poco alla volta, dopo la prematura raccolta. Va bene dai, questo step alla fine non è stato poi male, no nanifera?

 

Photocredits: Pixabay

CHI S’ACCONTENTA GODE. FORSE.

vita da ufficio

Altrimenti detto: ma quando divento grande, imparerò a ragionare prima di agire?

Sembrava tutto a posto no? Prima, dico, sembrava andare tutto bene: un nuovo lavoro, nuovo ufficio in una zona molto bella dell’Urbe, nuovi colleghi, nuova routine, nuove conoscenze. Insomma, un bel pacchetto preconfezionato pieno di cose tutte da scoprire. Figo!

E invece no, no proprio. Perché dopo un anno e mezzo vissuto pericolosamente (a parte Marja, che è stata mia collega solo per 6 mesi, solo uomini in ufficio), dopo aver conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito (il famoso terzo incomodo della foto che trovate qui), ho deciso che quel lavoro non faceva per me.

Stolta nana cinqueenne che hai fretta di crescere!

Ok, facciamo un momento di chiarezza. La mia permanenza in quella azienda, un broker aereo per la cronaca, può essere divisa in tre periodi di sei mesi ciascuno: i 6 mesi di aspettativa di Marja, i 6 mesi di compresenza con Marja e gli ultimi 6 mesi in cui Marja non ha più lavorato lì. L’ultimo periodo, che chiameremo il periodo nero, è stato il più difficile, non solo perché non c’era più una collega con cui condividere lavoro e chiacchiere, ma anche perché l’assetto dell’ufficio si era andato modificando poco alla volta ed era proporzionalmente aumentato il nervosismo. Il motivo? Due fattori: il nuovo capo, un ex militare che cercava di portare la struttura della caserma in via Boncompagni; il lavoro che iniziava a scarseggiare, e i guadagni a diminuire.

In questa situazione il mio ruolo si era pian piano modificato: da segretaria di direzione a contabile. Con tutto il rispetto per la categoria, una che ha sempre pensato che lo scorporo dell’Iva fosse una forma di tortura medievale, ecco no, tenere i conti non era proprio il massimo. E man mano che passavano le settimane, ogni mattina i tre piani di scale che mi portavano al portone di legno scuro diventavano la conquista del K2.

conti e scartoffie

Altra nota di colore: nel frattempo, il bellimbusto di cui sopra (mio marito, non l’ex militare) era venuto a vivere con me, nel mio buen retiro a Trastevere. Essendo anche colleghi, sono stata automaticamente trasformata anche nella sua segretaria personale, per cui chiunque lo cercasse fuori orario di ufficio si sentiva in diritto di chiamare me. Sempre. Anche al cellulare privato. E no, non è bello scatafossarsi fuori dalla doccia per acchiappare il telefono e sentirsi dire: “Oh ma non mi risponde, dove sta?”

Quindi, data la situazione, complice una serrata “corte lavorativa” da parte di un nostro fornitore e la solita dose di incoscenza, ho rassegnato le dimissioni. Vai, adieu! Tanti saluti a casa eh.

Dici: ci sta, succede nella vita lavorativa di cambiare. Tecnicamente però, il cambiamento dovrebbe avvenire in meglio, e uno dovrebbe strappare condizioni lavorative più vantaggiose, giusto? Era così?

Senti nana, mi sa che quando Lassù distribuivano i “lampi di genio”, te eri in fila per la dabbenaggine. Secondo giro.

Photo credits: Freeimages

IL PRIMO TRADIMENTO, OVVERO, LA SCELTA DELLA VIA PIU’ COMODA

piano_studi
Diventare grandi non è facile. Ok me lo segno.

Non ho avuto il minimo dubbio sulla scelta del corso di laurea: avrei studiato Lingue. In realtà, inizialmente pensavo al corso in traduzione, ma la selezione era più dura del previsto e, a dirla tutta, non ero nemmeno adeguatamente preparata (qui dovrei aprire una parentesi digressiva troppo lunga, ma sappiate che mi sono impegnata).

Incassato un bel “no grazie” dalla Traduzione, mi sono buttata sullo studio tradizionale delle Lingue Straniere, convincendomi che fosse quasi la stessa cosa, che avrei comunque potuto studiare molto bene le lingue dal punto di vista tecnico e che poi, in virtù della adeguata preparazione che mi ero figurata, avrei potuto comunque intraprendere la strada che avevo in mente.

Peccato non avessi idea di dove portasse.

Dopo un percorso netto, con tante belle esperienze vissute nel mezzo e l’incontro con insegnanti preparatissimi (checchè se ne dica dell’Università Italiana) ho preso il mio bel fagotto di idee strampalate e sono tornata alla carica con i corsi di traduzione. Facendo vari test di selezione per l’ingresso mi sono immediatamente resa conto di aver fatto un errore di valutazione madornale: per tradurre in italiano non dovevo conoscere alla perfezione la lingua di partenza, ma quella di arrivo, la mia! Quello che fa di un traduttore un buon traduttore non è quanti significati conosce del termine in inglese o in spagnolo, ma la sfumatura con cui rende quel termine in italiano.

A quel punto ho preso da parte la 5enne che è in me e le ho chiesto: ” Che si fa? Qui c’è da ricominciare praticamente da capo!” Risposta: “Ma sei matta? Con tutta la fatica che abbiamo fatto fin qui? Si ok, confesso di aver detto –Quando divento grande farò la traduttrice!– ma insomma, ho pure cinque anni, posso anche dirle due scemenze no? Tu piuttosto, che ormai hai 25 anni, che vuoi fare della tua vita? Eh?”

Capite bene che con una così non avevo scelta; per un po’ ho traccheggiato in siti di traduzione, cercando di carpire qualche dritta dagli stimati colleghi, ma ne ho ricavato una sola conclusione, cioè che per fare la traduttrice avrei dovuto studiare ancora, e non poco. E lei, ovviamente, non ne aveva voglia.

“Ok nana malefica, hai vinto tu, niente traduzione. Alla fine sai, nel piano di studi avevo messo gli esami che mi abilitano all’insegnamento, posso intraprendere quella strada.”

E vennero le SSIS, e i TFO, e le terze fasce, e il concorsone.

Poi dicono sia brutto zittire i bambini.